C’era
molta attesa per la presentazione al Comunale di Bologna dell’opera di Alessandro Solbiati ‘Il suono giallo’,
ispirata liberamente alla composizione Der
gelbe Klang di V. Kandinskij ed in prima esecuzione assoluta. Un lavoro
certo molto particolare per palati forti che possiede in sé la dirompente
disperazione, angoscia e precarietà dei tempi nostri, sia dal punto di vista scenico
che musicale. Della durata di circa un’ora e venti, si compone di sei quadri preceduti
da un prologo e seguiti da un epilogo, intercalati da sette intermezzi
musicali. Gli interpreti qui sono più attori che cantanti, definiti ‘giganti’, ed il coro che commenta le loro azioni è diviso in grande, seduto fuori scena,
e piccolo, che agisce sul palco.
Ciò
che costituisce il libretto dello stesso compositore si avvale dei versi del
grande pittore russo per l’occasione affiancati da alcune note scritte da lui per
il saggio Über die Mauer, che nelle
intenzioni di Solbiati servono ad esplicare meglio i contenuti del componimento
in funzione della messa in scena. Qui gli esseri viventi si uniscono e si allontanano,
soffrono e si disperano, un senso di inadeguatezza espresso con forza pervade
nell’atmosfera, in quello che vuole essere un percorso che parte dall’oscurità
per poi aspirare alla luce, alla calma ed alla speranza di andare avanti.
Le
parole che ascoltiamo sono però piuttosto confuse e sostanzialmente fini a se
stesse nel descrivere questa sorta di stato allucinato da parte di chi le pronuncia,
come in preda a un delirio. Vi è un ampio uso di sinestesie ed ossimori con la
descrizione di rocce parlanti, nerissime
lotte, tenebrosa luce, ma compaiono qua e là anche bestemmie, preghiere, sogni, lacrime, risa, e così via. In estrema sintesi una serie di visualizzazioni senza
un particolare filo conduttore, che vengono lamentosamente cantate dagli
interpreti in un generale e profondo senso di sconforto.
In
questo contesto si inserisce la regia di Franco Ripa
di Meana coadiuvata da Marco Gnaccolini per la specifica drammaturgia:
un susseguirsi di azioni sconclusionate, che rimarcano l’indefinitezza del testo
enunciato. I volti sono espressione di
inquietudine, vi è chi corre avanti e indietro o salta con una immaginaria
corda, chi si fa la barba coprendo di schiuma tutta la testa in un video
proiettato, insomma tutta una serie di atti senza senso compiuti in mezzo al
mucchio da coristi, cantanti e comparse, che sembrano a loro volta terrorizzati
da qualcosa che li disturba, fuggendo spesso di corsa dalla sala e ricomparendo
poi sul palco. Non mancano passeggiate intorno al pubblico che obiettivamente
viene investito da una sorta di inquietudine, evidente fin dalle prime battute. Classica spruzzatina di liquido sanguigno a macchiare le sottovesti in
cui restano le coriste, nonché di liquame giallo per richiamare il titolo dell’opera.
Ovviamente molto sui generis è la scena di Gianni Dessì in cui il colore giallo torna nella tinta di una
stanza rovesciata e che man mano si riduce al
solo pavimento; compaiono gigantesche maschere mostruose pendenti dall’alto
come a schiacciare gli interpreti, e passiamo continuamente dal nulla più totale all’utilizzo di elementi alquanto assurdi. Dulcis in
fundo infatti, un enorme pugno alzato alla maniera comunista che regge la
sagoma di una lampada gialla a forma di casetta, è l’ultimo elemento di questa che più che una
scenografia sembra frutto di una tremenda allucinazione.
Studiati
ad hoc sono quindi gli effetti luminosi di Daniele
Naldi, che sottolineano i momenti topici con luce a
giorno verso la sala o con profonda oscurità come richiesto spesso dal testo.
La musica di Solbiati non può che essere un adeguamento profondamente
viscerale a tutto questo caos e senso di incompiuto: non potevamo certo aspettarci
una melodia uniforme che risollevasse lo spirito del libretto, ed infatti il
compositore ha concepito una serie di suoni enigmatici che accompagnano
descrivendoli gli episodi piuttosto assurdi che si succedono sul palcoscenico
ed in sala. Dunque un largo uso delle percussioni, delle pause, di suoni
smorzati e poi ampliati, per un ascolto complessivamente visionario che mette
in risalto attese e sospiri, fino alle paure più inconsce. Il Maestro Marco Angius ha guidato l’orchestra
del Comunale in risposta a quanto richiesto con precisione e secondo noi con stoico
entusiasmo. In questo senso il direttore è riuscito a rendere in pieno il senso di
sospensione astratta di Kandinskij. Le voci
chiamate a sostenere tale peso sono presenti in tutti e cinque i registri: Paolo Antognetti tenore, Alda Caiello soprano, Maurizio Leoni baritono, Laura Catrani mezzosoprano ed il
basso Nicholas Isherwood. Come detto sono sono stati soprattutto attori in questo contesto e molto concentrati nell’eseguire le certo
non semplici frasi cantate. Fondamentale il contributo delle comparse Viviana Filippello, Deborah Frittelli, Valeria
Miserandino, Lorenzo Garufo, coinvolti
in questo incubo visivo nell’interagire con i cantanti.
Sparuti
dissensi tra un pubblico non molto folto che ha applaudito principalmente
Solbiati ed il direttore Angius. Qualcuno ha lasciato la sala anche prima del
termine.
Maria
Teresa Giovagnoli
LA PRODUZIONE
Direttore
|
Marco Angius
|
Regia
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Franco Ripa di Meana
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Maestro del Coro
|
Andrea Faidutti
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Scene e costumi
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Gianni Dessì
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Luci
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Daniele Naldi
|
Drammaturgia
|
Marco Gnaccolini
|
GLI INTERPRETI
Soprano
|
Alda Caiello
|
Mezzosoprano
|
Laura Catrani
|
Tenore
|
Paolo Antognetti
|
Baritono
|
Maurizio Leoni
|
Basso
|
Nicholas Isherwood
|
Progetto scenico di Franco
Ripa di Meana e Gianni
Dessì
Realizzazione dei contributi video di Carlo Cifarelli
Attori: Maria Viviana Filippello, Deborah Frittelli, Valeria Miserandino, Lorenzo Garufo.
Attori: Maria Viviana Filippello, Deborah Frittelli, Valeria Miserandino, Lorenzo Garufo.
Nuova produzione Teatro Comunale di Bologna
Commissione Teatro Comunale di Bologna
Prima rappresentazione assoluta
Commissione Teatro Comunale di Bologna
Prima rappresentazione assoluta
Orchestra, Coro e Tecnici del Teatro Comunale di Bologna
Foto Rocco Casaluci