Oggi
incontriamo con molto piacere il Maestro Marco
Angius, tra i direttori d’orchestra di riferimento per il repertorio
contemporaneo, recentemente nominato direttore artistico e musicale della OPV, Orchestra di Padova e del Veneto. Ci ha raccontato della sua carriera
internazionale che lo ha portato a dirigere nei teatri più prestigiosi del
mondo e con le più grandi orchestre, unitamente agli interessanti progetti
paralleli che con tanta soddisfazione ottengono sempre grandi consensi.
La sua carriera si è sviluppata
soprattutto nel repertorio contemporaneo, è solo una questione di gusto oppure
sente che il suo braccio recepisce meglio questo tipo di musica?
Mi
sono sempre sentito a mio agio nel repertorio moderno e contemporaneo, come una
sorta di vocazione, e ho compiuto un percorso inverso rispetto alla musica del
passato. Grazie alla musica contemporanea ho maturato gli strumenti per
comprendere meglio quella di epoche precedenti pur avendo seguito un iter
formativo regolare e abbastanza tradizionale.
Il
repertorio classico riveste per me, proprio per le ragioni suddette, il valore
di una scoperta e lo pratico oggi più volentieri nella misura in cui posso
rinnovarlo, offrendo all’ascoltatore un punto di vista anti-routine.
Secondo
lei il suo modo di dirigere ha una cifra particolare che lo distingue da quello
dei suoi colleghi?
Ogni
direttore ha un proprio modo di gestire la stessa musica; nel mio caso, forse,
la musica è raramente la stessa… Molte scuole di direzione, per esempio, si
concentrano soprattutto sulla gestualità, ma ciò che bisogna davvero affinare è
l’ascolto in tempo reale e su questo non ci si prepara a casa. Un’orchestra
stabile si esercita quasi tutti i giorni: (si) ascolta, recepisce i pezzi dalla
propria singola parte orientandosi benissimo, mentre per il direttore non è
così. L’orchestra ha sempre da porgere qualcosa di nuovo e di conseguenza sono
portato a una riscoperta costante dell’approccio direttoriale: ogni volta si
ricomincia da capo, con mezzi più avanzati, ma pur sempre rimettendosi in
discussione. Più passa tempo e più scopro la magia e il mistero del suonare
insieme e, soprattutto, che la partitura non coincide con l’opera. Nel caso
della musica contemporanea, si lavora spesso con brani di prima mano e si è
sempre alla scoperta di qualcosa di inedito. Di sicuro, il confronto costante
con partiture estremamente complesse fa crescere un interprete molto più
rapidamente. E’ una specie di concime per lo sviluppo delle idee e della
sensibilità artistica, oltre che della tecnica direttoriale.
Ci
racconta dei suoi esordi?
Una
gavetta interminabile e mai nessun vantaggio gratuito. Questo mi fa apprezzare
di più il valore etico della musica e in generale di questo lavoro-missione.
Considero il concerto-svolta gli Studi
per l’intonazione del mare di
Sciarrino diretti in prima a Città di Castello circa quindici anni fa. Prima di
quel lavoro, così estremo, avevo avuto alcune esperienze sparse ma comunque
decisive: Le marteau sans maître di
Boulez, Pierrot lunaire, Histoire du soldat e quintali di prime
assolute. Da allievo, l’unico modo per dirigere era affrontare i pezzi degli
studenti di composizione. Talvolta anche una dozzina a sera. Dove altri
guardavano con sufficienza queste prove, come anti-musica nel migliore dei
casi, io mi entusiasmavo nello scoprire soluzioni e invenzioni sempre diverse,
più o meno acerbe ma in ogni caso imprevedibili.
Di
recente è diventato direttore artistico e musicale dell’Orchestra di Padova e
del Veneto: si è prefisso un obiettivo da raggiungere con questa orchestra?
Non
uno solo! Quello di sdoganare luoghi comuni della musica contemporanea, ad
esempio, mostrando la ricchezza e le potenzialità didattiche della ricerca
musicale in questo ambito. Sciarrino è compositore in residenza per la Stagione
15-16 ma il mio obiettivo non è affatto quello di infarcire i programmi con
musica contemporanea: nessuna condanna
all’ascolto. Riscoprire il piacere dell’ascolto, semmai, stuzzicando la
curiosità del pubblico. C’è stato subito un grande feeling con i giovani: è una
cosa meravigliosa che incrementa le motivazioni sia in me che nell’orchestra.
Poi c’è il rinnovamento dell’orchestra stessa con nuove audizioni e concorsi da
attuare al più presto. Un’orchestra è una micro-società, ci sono componenti
umane e artistiche incredibili da esaltare e sostenere e sono davvero felice
che possa contribuire al miglioramento di questa splendida realtà patavina. Dal
2013 sto realizzando un disco l’anno con l’Opv: prima Checkpoint di dall’Ongaro, poi l’Arte della fuga di Bach nella versione di Scherchen e ora ci
attende un Dallapiccola/Togni ossia un’indagine sulla dodecafonia in Italia tra
gli anni ’40 e ‘50. Il doppio incarico –ma direi piuttosto un compito
simultaneo- significa ulteriori responsabilità di fronte al pubblico e alle
attese future: non ci sono barriere tra me e l’orchestra e ciò costituisce un
notevole punto di forza. La mia filosofia, che ho maturato con convinzione e
determinazione negli anni, consiste nell’abolire la tradizionale distanza tra
direttore e orchestra pur nel rispetto dei reciproci ruoli.
Predilige
le partiture più drammatiche oppure quelle per così dire più ‘leggere’?
E’
una differenza che cerco di superare pur avendo le mie opinioni; tendo a una
programmazione rigorosa e coerente anche nei concerti fuori stagione. La musica
può essere intrattenimento o impegno e ciò dipende da vari fattori: dagli
interpreti, da chi ascolta ma anche dalle formule di programmazione e dalle
scelte artistiche.
Ci
parla dei suoi progetti collaterali, come ad esempio l’ensemble Algoritmo, le
piace sperimentare esperienze nuove?
Algoritmo
è un’esperienza unica iniziata nel 2002 intorno alla figura e alla musica di
Ivan Fedele; poi è confluita parzialmente nei progetti dell’ensemble Prometeo
di Parma e del Festival Traiettorie di Martino Traversa. A Parma ho avuto fin
dall’inizio una notevole libertà d’azione; in pochi anni abbiamo affrontato
alcuni capisaldi del repertorio contemporaneo come gli Imaginary landscapes e le Sixteen
dances di Cage, Die Schachtel di
Evangelisti, il Pierrot lunaire,
opere di Grisey, Sciarrino, Stockhausen, Berio, Boulez fino a Risonanze erranti di Nono eseguito e
inciso lo scorso anno al Farnese durante un concerto che ha segnato
profondamente il Festival e il pubblico presente. Tra pochi giorni uscirà un
nuovo cd con musiche di Traversa frutto di un lungo lavoro intorno alla
neo-complessità musicale. L’altra realtà cui sono molto legato è quella
dell’Accademia del Teatro alla Scala e dell’ensemble Giorgio Bernasconi,
costituito da giovani talenti sempre rinnovati ogni due anni. Dal 2011 abbiamo
fatto percorsi davvero sorprendenti e continuiamo tutt’ora a esplorare il
Novecento e la musica del presente in tutte le direzioni.
Come
studia una partitura nuova?
In
generale devo dapprima individuare un tracciato principale sia per i processi
di memorizzazione che di indagine del senso profondo di un pezzo: si tratta di
decostruire i vari strati di una composizione per ricostruirli poi secondo un
percorso logico rinnovato. Via via che si assumono dati si creano relazioni
trasversali interne che conducono poi a un controllo sempre maggiore
dell’essenza musicale di una partitura. Sono quelle che chiamo mappature: una sorta di carte nautiche
con cui evidenziare e assimilare le componenti strutturali di una composizione,
un misto di artigianato, studio appassionato e intuizione. Per me interpretare
significa non solo comprendere le intenzioni dell’autore ma trasmetterle e
renderle vive secondo il mio punto di vista e le mie urgenze espressive: ciò
che è scritto è importante ma non è tutto. Ciò che non si legge lo è senz’altro
di più perché appare solo scavando tra le pieghe dei suoni e dei silenzi,
cercando cioè uno dei possibili sensi
della composizione. Ho sviluppato negli anni un modo di notare questo percorso,
evidenziarlo e ricostruirmelo in testa prima di passare alle strategie di
concertazione vere e proprie ossia all’altra metà operativa di un percorso
musicale.
Foto Silvia Lelli
Foto Silvia Lelli
Preferisce
dirigere più sinfonica o opera lirica?
Sono
due esperienze diverse e altrettanto indispensabili. Non dovrebbero mancare a
un direttore quanto a un’orchestra perché si integrano e compenetrano. Trovo
che la musica contemporanea abbia delle grandi chances proprio nel teatro
musicale e anche in questo caso sono partito da esperienze davvero estreme per
approdare alla lirica propriamente intesa che, detto per inciso, m’interessa
soprattutto come campo di possibile rinnovamento. Sciarrino, per esempio, mi ha
mostrato recentemente le sue fermate e
fioriture per il Don Giovanni che
risalgono all’inizio degli anni ‘90: sono cadenze delle parti vocali nei
momenti coronati. Essendo elaborate in uno stile rigoroso, ossia derivato da
modelli mozartiani preesistenti, le nuove linee cambierebbero il profilo
consueto con cui si recepisce questo titolo. Vorrei sperimentarle quanto prima
con la complicità di un cast che intenda mettersi in gioco in modo innovativo e
attuale.
È
stato anche in Russia in tournée con l’orchestra Rai, come vede la realtà musicale
all’estero rispetto al nostro paese?
L’esperienza
della Russia è stata indimenticabile: era la prima volta per tutti e sapevamo
di dover dare il massimo in prove ardue come la diretta televisiva da Mosca.
Sono particolarmente felice dei risultati, riportati anche dal bel documentario
di Rai5. Il pubblico ci ha sempre accolto con grande calore, entusiasmo,
vicinanza e competenza. Si capisce che lì la musica è un bene della comunità,
qualcosa di universale e irrinunciabile. Purtroppo, almeno su questo piano, i
confronti col nostro Paese sarebbero avvilenti.
Come
vede la realtà musicale nel comune di Padova attualmente?
Sto
cominciando a studiarla. Personalmente cerco di dialogare con tutte le
istituzioni. C’è bisogno di un nuovo auditorium, cioè di una casa della musica. So che se ne parlò a
lungo in passato, anche con progetti approvati, ma poi è subentrata la
rassegnazione e non se n’è fatto nulla. Non credo che sia solo una necessità
dell’Opv ma della città: l’auditorium è infatti un luogo di cui si appropria la
comunità intera. Se si capisce questo, tutto diventa realizzabile e concreto.
Si tratta di investire per un bene comune di cui l’Opv usufruirebbe come
espressione culturale elettiva di una realtà non solo locale. L’Auditorium
Pollini è uno spazio per molti versi ideale ma inserito nel contesto del
Conservatorio che ha le sue necessità didattiche e organizzative. Intorno a
esso ci azzuffiamo in tanti per ottenerne una disponibilità continuativa
mediante il pagamento di un affitto. Attenzione: sto parlando del concerto e
non delle prove che preparano il concerto. Per quelle dobbiamo pagare un
ulteriore affitto in un luogo decisamente inadatto che è il Teatro ai Colli,
dall’acustica secchissima e fuori mano da raggiungere, per poi spostarci al
Pollini solo il giorno del concerto…Confrontando questa situazione con quella
delle altre Ico italiane che mi è capitato di dirigere –quasi tutte, da Lecce a
Bolzano- appare chiara tanto la sua inadeguatezza quanto la necessità di
intervenire al più presto e su questo aspetto ci stiamo dannando l’anima
insieme al Vicepresidente Trolese e a tutti i collaboratori. Non si tratta
dunque solo di una volontà politica da mettere in atto ma di conquistare un
vanto e orgoglio cittadino che faccia dire a tutti: ecco, abbiamo un auditorium
dove ritrovarci, svolgere concerti, attività didattica, manifestazioni
culturali, magari uno spazio con del verde per le famiglie dove trascorrere il
tempo libero e assistere a eventi di richiamo. Un ulteriore modo per arricchire
l’immagine della città, in fin dei conti. Un’orchestra come l’Opv, che ha mezzo
secolo di storia e una realtà documentata dalla maggiore discografia italiana
–oltre 50 cd in incremento costante- deve finalmente poter incontrare la città
in un luogo deputato a celebrare la musica e la cultura, dove le generazioni
più giovani possano crescere nella bellezza dell’arte. Un patrimonio e
un’eredità da lasciare al futuro insomma.
Ci
sono dei colleghi del passato che ammira particolarmente? E del presente?
Ce
ne sono tanti del passato e del presente. Mi limito a ricordare Hermann
Scherchen che ha avuto la fortuna di dirigere le prime storiche di
Dallapiccola, Nono, Schönberg…un vero patriarca insomma, con un destino
artistico cruciale nel Novecento.
Da
studente ricordo le prove di Daniele Gatti a Santa Cecilia: Bartok, Mahler,
Respighi, Verdi, concertazioni davvero formidabili. Alcuni anni fa mi è
capitato di fare da assistente a Sir Antonio Pappano per le recite del Guillaume Tell di Rossini ed è stata
un’esperienza da cui ho imparato moltissimo. Devo aggiungere poi il ricordo di
un direttore prematuramente scomparso: Massimo De Bernart. Lo conobbi a Spoleto
molti anni addietro mentre provava un repertorio sinfonico e mi aveva colpito
per la sicurezza della conduzione e le indicazioni tecniche così specifiche e minuziose
che dava all’orchestra, ma anche per un orecchio infallibile.
Domanda
d’obbligo quando si intervista una persona così dinamica e piena di iniziative:
come gestisce gli impegni musicali con la vita famigliare? E il tempo libero?
La
musica e anche il recente impegno con l’Opv mi assorbono completamente e questo
è un bene. La musica richiede una dedizione totale e ripaga di ciò salvandoci
moralmente e psicologicamente; è anche un rifugio, un riscatto del/dal mondo e
per questo non cerco evasione da essa ma, anzi, il contrario: una
full-immersion totale. E’ tra i valori più nobili e alti che abbiamo e dunque
sono felice di appartenere alla s.c.m.p. (sacra congregazione dei musici
praticanti!).
Ha
in mente qualche nuovo progetto? I suoi prossimi impegni?
Sto
preparando appuntamenti di teatro musicale e misti che richiedono tempi lunghi
di assimilazione oltre a uno studio meticoloso: Janáček, Malipiero, Verdi,
Nono, Berlioz, alcuni contemporanei come Cehra, Chin, Haas, Hosokawa, Rihm, altre
opere prime in corso di composizione che seguo passo passo. Nell’immediato ci
sarà la nuova produzione di Luci mie
traditrici di Sciarrino con la regia di Flimm al Comunale di Bologna, gli
impegni con l’Orchestra Rai di Torino sia nella musica contemporanea che nel
Novecento storico (prima con Stravinsky, Prokofiev e Rachmaninov poi anche con
Berg, Schönberg e Brahms), a primavera col Maggio Fiorentino per un programma
tutto italiano e la nuova stagione dell’OPV che prevede una serie molto
impegnativa di concerti e iniziative multidisciplinari.
Ringraziando il Maestro Angius, naturalmente gli facciamo il consueto in bocca al lupo per tutti i suoi progetti e gli auguriamo un buon lavoro!
Maria Teresa Giovagnoli