lunedì 30 novembre 2015

INTERVISTA A...MARCO ANGIUS

Oggi incontriamo con molto piacere il Maestro Marco Angius, tra i direttori d’orchestra di riferimento per il repertorio contemporaneo, recentemente nominato direttore artistico e musicale della OPV, Orchestra di Padova e del Veneto. Ci ha raccontato della sua carriera internazionale che lo ha portato a dirigere nei teatri più prestigiosi del mondo e con le più grandi orchestre, unitamente agli interessanti progetti paralleli che con tanta soddisfazione ottengono sempre grandi consensi.



La sua carriera si è sviluppata soprattutto nel repertorio contemporaneo, è solo una questione di gusto oppure sente che il suo braccio recepisce meglio questo tipo di musica?
Mi sono sempre sentito a mio agio nel repertorio moderno e contemporaneo, come una sorta di vocazione, e ho compiuto un percorso inverso rispetto alla musica del passato. Grazie alla musica contemporanea ho maturato gli strumenti per comprendere meglio quella di epoche precedenti pur avendo seguito un iter formativo regolare e abbastanza tradizionale.
Il repertorio classico riveste per me, proprio per le ragioni suddette, il valore di una scoperta e lo pratico oggi più volentieri nella misura in cui posso rinnovarlo, offrendo all’ascoltatore un punto di vista anti-routine.


Secondo lei il suo modo di dirigere ha una cifra particolare che lo distingue da quello dei suoi colleghi?
Ogni direttore ha un proprio modo di gestire la stessa musica; nel mio caso, forse, la musica è raramente la stessa… Molte scuole di direzione, per esempio, si concentrano soprattutto sulla gestualità, ma ciò che bisogna davvero affinare è l’ascolto in tempo reale e su questo non ci si prepara a casa. Un’orchestra stabile si esercita quasi tutti i giorni: (si) ascolta, recepisce i pezzi dalla propria singola parte orientandosi benissimo, mentre per il direttore non è così. L’orchestra ha sempre da porgere qualcosa di nuovo e di conseguenza sono portato a una riscoperta costante dell’approccio direttoriale: ogni volta si ricomincia da capo, con mezzi più avanzati, ma pur sempre rimettendosi in discussione. Più passa tempo e più scopro la magia e il mistero del suonare insieme e, soprattutto, che la partitura non coincide con l’opera. Nel caso della musica contemporanea, si lavora spesso con brani di prima mano e si è sempre alla scoperta di qualcosa di inedito. Di sicuro, il confronto costante con partiture estremamente complesse fa crescere un interprete molto più rapidamente. E’ una specie di concime per lo sviluppo delle idee e della sensibilità artistica, oltre che della tecnica direttoriale.

Ci racconta dei suoi esordi?
Una gavetta interminabile e mai nessun vantaggio gratuito. Questo mi fa apprezzare di più il valore etico della musica e in generale di questo lavoro-missione. Considero il concerto-svolta gli Studi per l’intonazione del mare di Sciarrino diretti in prima a Città di Castello circa quindici anni fa. Prima di quel lavoro, così estremo, avevo avuto alcune esperienze sparse ma comunque decisive: Le marteau sans maître di Boulez, Pierrot lunaire, Histoire du soldat e quintali di prime assolute. Da allievo, l’unico modo per dirigere era affrontare i pezzi degli studenti di composizione. Talvolta anche una dozzina a sera. Dove altri guardavano con sufficienza queste prove, come anti-musica nel migliore dei casi, io mi entusiasmavo nello scoprire soluzioni e invenzioni sempre diverse, più o meno acerbe ma in ogni caso imprevedibili.

Di recente è diventato direttore artistico e musicale dell’Orchestra di Padova e del Veneto: si è prefisso un obiettivo da raggiungere con questa orchestra?
Non uno solo! Quello di sdoganare luoghi comuni della musica contemporanea, ad esempio, mostrando la ricchezza e le potenzialità didattiche della ricerca musicale in questo ambito. Sciarrino è compositore in residenza per la Stagione 15-16 ma il mio obiettivo non è affatto quello di infarcire i programmi con musica contemporanea: nessuna condanna all’ascolto. Riscoprire il piacere dell’ascolto, semmai, stuzzicando la curiosità del pubblico. C’è stato subito un grande feeling con i giovani: è una cosa meravigliosa che incrementa le motivazioni sia in me che nell’orchestra. Poi c’è il rinnovamento dell’orchestra stessa con nuove audizioni e concorsi da attuare al più presto. Un’orchestra è una micro-società, ci sono componenti umane e artistiche incredibili da esaltare e sostenere e sono davvero felice che possa contribuire al miglioramento di questa splendida realtà patavina. Dal 2013 sto realizzando un disco l’anno con l’Opv: prima Checkpoint di dall’Ongaro, poi l’Arte della fuga di Bach nella versione di Scherchen e ora ci attende un Dallapiccola/Togni ossia un’indagine sulla dodecafonia in Italia tra gli anni ’40 e ‘50. Il doppio incarico –ma direi piuttosto un compito simultaneo- significa ulteriori responsabilità di fronte al pubblico e alle attese future: non ci sono barriere tra me e l’orchestra e ciò costituisce un notevole punto di forza. La mia filosofia, che ho maturato con convinzione e determinazione negli anni, consiste nell’abolire la tradizionale distanza tra direttore e orchestra pur nel rispetto dei reciproci ruoli.

Predilige le partiture più drammatiche oppure quelle per così dire più ‘leggere’?
E’ una differenza che cerco di superare pur avendo le mie opinioni; tendo a una programmazione rigorosa e coerente anche nei concerti fuori stagione. La musica può essere intrattenimento o impegno e ciò dipende da vari fattori: dagli interpreti, da chi ascolta ma anche dalle formule di programmazione e dalle scelte artistiche.

Ci parla dei suoi progetti collaterali, come ad esempio l’ensemble Algoritmo, le piace sperimentare esperienze nuove?
Algoritmo è un’esperienza unica iniziata nel 2002 intorno alla figura e alla musica di Ivan Fedele; poi è confluita parzialmente nei progetti dell’ensemble Prometeo di Parma e del Festival Traiettorie di Martino Traversa. A Parma ho avuto fin dall’inizio una notevole libertà d’azione; in pochi anni abbiamo affrontato alcuni capisaldi del repertorio contemporaneo come gli Imaginary landscapes e le Sixteen dances di Cage, Die Schachtel di Evangelisti, il Pierrot lunaire, opere di Grisey, Sciarrino, Stockhausen, Berio, Boulez fino a Risonanze erranti di Nono eseguito e inciso lo scorso anno al Farnese durante un concerto che ha segnato profondamente il Festival e il pubblico presente. Tra pochi giorni uscirà un nuovo cd con musiche di Traversa frutto di un lungo lavoro intorno alla neo-complessità musicale. L’altra realtà cui sono molto legato è quella dell’Accademia del Teatro alla Scala e dell’ensemble Giorgio Bernasconi, costituito da giovani talenti sempre rinnovati ogni due anni. Dal 2011 abbiamo fatto percorsi davvero sorprendenti e continuiamo tutt’ora a esplorare il Novecento e la musica del presente in tutte le direzioni.

Come studia una partitura nuova?
In generale devo dapprima individuare un tracciato principale sia per i processi di memorizzazione che di indagine del senso profondo di un pezzo: si tratta di decostruire i vari strati di una composizione per ricostruirli poi secondo un percorso logico rinnovato. Via via che si assumono dati si creano relazioni trasversali interne che conducono poi a un controllo sempre maggiore dell’essenza musicale di una partitura. Sono quelle che chiamo mappature: una sorta di carte nautiche con cui evidenziare e assimilare le componenti strutturali di una composizione, un misto di artigianato, studio appassionato e intuizione. Per me interpretare significa non solo comprendere le intenzioni dell’autore ma trasmetterle e renderle vive secondo il mio punto di vista e le mie urgenze espressive: ciò che è scritto è importante ma non è tutto. Ciò che non si legge lo è senz’altro di più perché appare solo scavando tra le pieghe dei suoni e dei silenzi, cercando cioè uno dei possibili sensi della composizione. Ho sviluppato negli anni un modo di notare questo percorso, evidenziarlo e ricostruirmelo in testa prima di passare alle strategie di concertazione vere e proprie ossia all’altra metà operativa di un percorso musicale.


                                          Foto Silvia Lelli

Preferisce dirigere più sinfonica o opera lirica?
Sono due esperienze diverse e altrettanto indispensabili. Non dovrebbero mancare a un direttore quanto a un’orchestra perché si integrano e compenetrano. Trovo che la musica contemporanea abbia delle grandi chances proprio nel teatro musicale e anche in questo caso sono partito da esperienze davvero estreme per approdare alla lirica propriamente intesa che, detto per inciso, m’interessa soprattutto come campo di possibile rinnovamento. Sciarrino, per esempio, mi ha mostrato recentemente le sue fermate e fioriture per il Don Giovanni che risalgono all’inizio degli anni ‘90: sono cadenze delle parti vocali nei momenti coronati. Essendo elaborate in uno stile rigoroso, ossia derivato da modelli mozartiani preesistenti, le nuove linee cambierebbero il profilo consueto con cui si recepisce questo titolo. Vorrei sperimentarle quanto prima con la complicità di un cast che intenda mettersi in gioco in modo innovativo e attuale.

È stato anche in Russia in tournée con l’orchestra Rai, come vede la realtà musicale all’estero rispetto al nostro paese?
L’esperienza della Russia è stata indimenticabile: era la prima volta per tutti e sapevamo di dover dare il massimo in prove ardue come la diretta televisiva da Mosca. Sono particolarmente felice dei risultati, riportati anche dal bel documentario di Rai5. Il pubblico ci ha sempre accolto con grande calore, entusiasmo, vicinanza e competenza. Si capisce che lì la musica è un bene della comunità, qualcosa di universale e irrinunciabile. Purtroppo, almeno su questo piano, i confronti col nostro Paese sarebbero avvilenti.

Come vede la realtà musicale nel comune di Padova attualmente?
Sto cominciando a studiarla. Personalmente cerco di dialogare con tutte le istituzioni. C’è bisogno di un nuovo auditorium, cioè di una casa della musica. So che se ne parlò a lungo in passato, anche con progetti approvati, ma poi è subentrata la rassegnazione e non se n’è fatto nulla. Non credo che sia solo una necessità dell’Opv ma della città: l’auditorium è infatti un luogo di cui si appropria la comunità intera. Se si capisce questo, tutto diventa realizzabile e concreto. Si tratta di investire per un bene comune di cui l’Opv usufruirebbe come espressione culturale elettiva di una realtà non solo locale. L’Auditorium Pollini è uno spazio per molti versi ideale ma inserito nel contesto del Conservatorio che ha le sue necessità didattiche e organizzative. Intorno a esso ci azzuffiamo in tanti per ottenerne una disponibilità continuativa mediante il pagamento di un affitto. Attenzione: sto parlando del concerto e non delle prove che preparano il concerto. Per quelle dobbiamo pagare un ulteriore affitto in un luogo decisamente inadatto che è il Teatro ai Colli, dall’acustica secchissima e fuori mano da raggiungere, per poi spostarci al Pollini solo il giorno del concerto…Confrontando questa situazione con quella delle altre Ico italiane che mi è capitato di dirigere –quasi tutte, da Lecce a Bolzano- appare chiara tanto la sua inadeguatezza quanto la necessità di intervenire al più presto e su questo aspetto ci stiamo dannando l’anima insieme al Vicepresidente Trolese e a tutti i collaboratori. Non si tratta dunque solo di una volontà politica da mettere in atto ma di conquistare un vanto e orgoglio cittadino che faccia dire a tutti: ecco, abbiamo un auditorium dove ritrovarci, svolgere concerti, attività didattica, manifestazioni culturali, magari uno spazio con del verde per le famiglie dove trascorrere il tempo libero e assistere a eventi di richiamo. Un ulteriore modo per arricchire l’immagine della città, in fin dei conti. Un’orchestra come l’Opv, che ha mezzo secolo di storia e una realtà documentata dalla maggiore discografia italiana –oltre 50 cd in incremento costante- deve finalmente poter incontrare la città in un luogo deputato a celebrare la musica e la cultura, dove le generazioni più giovani possano crescere nella bellezza dell’arte. Un patrimonio e un’eredità da lasciare al futuro insomma.

Ci sono dei colleghi del passato che ammira particolarmente? E del presente?
Ce ne sono tanti del passato e del presente. Mi limito a ricordare Hermann Scherchen che ha avuto la fortuna di dirigere le prime storiche di Dallapiccola, Nono, Schönberg…un vero patriarca insomma, con un destino artistico cruciale nel Novecento.
Da studente ricordo le prove di Daniele Gatti a Santa Cecilia: Bartok, Mahler, Respighi, Verdi, concertazioni davvero formidabili. Alcuni anni fa mi è capitato di fare da assistente a Sir Antonio Pappano per le recite del Guillaume Tell di Rossini ed è stata un’esperienza da cui ho imparato moltissimo. Devo aggiungere poi il ricordo di un direttore prematuramente scomparso: Massimo De Bernart. Lo conobbi a Spoleto molti anni addietro mentre provava un repertorio sinfonico e mi aveva colpito per la sicurezza della conduzione e le indicazioni tecniche così specifiche e minuziose che dava all’orchestra, ma anche per un orecchio infallibile.

Domanda d’obbligo quando si intervista una persona così dinamica e piena di iniziative: come gestisce gli impegni musicali con la vita famigliare? E il tempo libero?
La musica e anche il recente impegno con l’Opv mi assorbono completamente e questo è un bene. La musica richiede una dedizione totale e ripaga di ciò salvandoci moralmente e psicologicamente; è anche un rifugio, un riscatto del/dal mondo e per questo non cerco evasione da essa ma, anzi, il contrario: una full-immersion totale. E’ tra i valori più nobili e alti che abbiamo e dunque sono felice di appartenere alla s.c.m.p. (sacra congregazione dei musici praticanti!).

Ha in mente qualche nuovo progetto? I suoi prossimi impegni?

Sto preparando appuntamenti di teatro musicale e misti che richiedono tempi lunghi di assimilazione oltre a uno studio meticoloso: Janáček, Malipiero, Verdi, Nono, Berlioz, alcuni contemporanei come Cehra, Chin, Haas, Hosokawa, Rihm, altre opere prime in corso di composizione che seguo passo passo. Nell’immediato ci sarà la nuova produzione di Luci mie traditrici di Sciarrino con la regia di Flimm al Comunale di Bologna, gli impegni con l’Orchestra Rai di Torino sia nella musica contemporanea che nel Novecento storico (prima con Stravinsky, Prokofiev e Rachmaninov poi anche con Berg, Schönberg e Brahms), a primavera col Maggio Fiorentino per un programma tutto italiano e la nuova stagione dell’OPV che prevede una serie molto impegnativa di concerti e iniziative multidisciplinari. 

Ringraziando il Maestro Angius, naturalmente gli facciamo il consueto in bocca al lupo per tutti i suoi progetti e gli auguriamo un buon lavoro!

Maria Teresa Giovagnoli