Nello stesso periodo in cui Mozart componeva il delizioso Flauto magico, ossia
nell’ultimo suo anno di vita, il 1791, il compositore austriaco terminò anche il
suo ultimo capolavoro serio: La clemenza di Tito, tratta da Metastasio e su
libretto di Caterino Mazzolà, poeta che dovette rivederne il testo affinché
fosse più ‘adatto’ alla musica del salisburghese. Due mondi completamente
diversi, una fiaba ed un dramma storico, ma che manifestano entrambi come
sentimenti di amore, gelosia e brama di potere, possano manifestarsi
in ogni genere, tanto nella fantasia quanto nella vita reale. Ma soprattutto in
ambo i casi viene sottolineato il fatto che un uomo di potere, un imperatore romano in
questo caso, possa essere conosciuto ed amato per la sua proverbiale
magnanimità. E’ noto infatti come questa opera fu scritta per celebrare l’allora
regnante Leopoldo II d’Asburgo, successore di Giuseppe II, in occasione della
sua incoronazione come re di Boemia.
Per celebrarlo degnamente Mozart chiama in causa il ‘clemente’ Tito,
ossia il sovrano per eccellenza, colui che mette sempre al primo posto il suo
impero fatto di persone più che di territori, a discapito anche dei suoi
sentimenti. Ha infatti occasione in più momenti di esprimere la sua grandezza, nel
rifiutare il ricco bottino di guerra offerto dal prefetto Publio, per donarlo
al popolo; nel rinunciare al matrimonio con Servilia sapendola innamorata di
Annio; nel dubitare della colpevolezza dell’amico fidato Sesto, nonostante le
evidenze; ed appunto nell’atto finale di perdono generale verso i cospiratori, motivo
chiave di questa opera.
Se tutto ciò avviene in origine nell’antica Roma, ancora una volta
dobbiamo spostarci in una dimensione senza tempo e quasi senza spazio. Nell’allestimento
che i registi Ursel
Herrmann e Karl-Ernst Herrmann propongono per
questo spettacolo, infatti, non sono necessari troppi fronzoli e ricercatezze,
ma nella sua sobrietà sta l’efficacia delle idee sviluppate man mano sulla
scena. Un allestimento che è ormai datato 1982, ma che ha fatto il giro dell’Europa,
fino alla recente ripresa del 2012 per Madrid, e finalmente approdato alla
Fenice come un atteso classico dei tempi recenti.
Ci troviamo in un luogo indefinito dalle prospettive molto marcate, ma di
difficile identificazione, in cui oltre a pochissimi elementi, a nostro avviso
pregnanti, presenti in scena, lo spettatore ha poco altro su cui concentrarsi.
Ma ciò che il pubblico vede è più che sufficiente a comprendere l’intero
tessuto narrativo.
Una ‘stanza’ è al
centro del palcoscenico, dai colori molto tenui, come una tavolozza su cui
tutto possa essere impresso da un momento all’altro. Delle porte si trovano
simmetricamente poste l’una di fronte all’altra al centro delle pareti. La platea
viene ad essere la quarta apertura ideale in opposizione a quella in centro palco.
Solo alcuni elementi completano l’allestimento ed entrano in scena nei momenti
cruciali. Così il trono dell’imperatore, prima di spalle e poi svelato, totalmente
bianco. Successivamente il fulcro della scena diviene una colonna, ancora
bianca, e spaccata a metà ed anche tranciata in cima. Dalle porte si
intravvedono dei meravigliosi archi che in successione si allontanano verso l’orizzonte,
anch’essi bianchi e con una statua al centro, che ricorda la celebre Vittoria alata, sempre bianca e che
viene fatta scintillare di fiamme che illuminano l’intera sala, in luogo dell’incendio
al Campidoglio. Il coro si mostra da queste aperture con delle corone di alloro
al capo dei coristi.
La corona di alloro è il simbolo stesso del potere, che
Vitellia tanto desidera per sé, ed è anch’essa grande protagonista della scena
con interessanti soluzioni registiche. Anche il momento in cui la congiura
operata da Sesto viene rivelata, è significativamente completato da un enorme
cubo nero che, penzolante dall’alto, è pronto a scagliarsi contro il colpevole,
ma poi si ritrae da dove era venuto, nel momento in cui l’odio svanisce
ad opera del giusto Tito. Infine, le bende che coprono gli occhi di Sesto e le maschere dei coristi nel finale stanno chiaramente ad indicare quanto la gelosia possa rendere ciechi e spinga anche a
gesti impronunciabili. Gli abiti che gli stessi registi hanno concepito sono un
misto di classico tardo settecentesco e contemporaneo, tra cui spiccano quelli di Vitellia, che si concede anche un abito rosa shocking
tra i vari indossati, a testimonianza di quanto forte e passionale sia il suo
essere.
Impegnatissimi
nel canto, tutti gli interpreti sono stati chiamati ad esprimere con esso e con
il corpo le molteplici emozioni che il registi hanno pensato per loro.
A cominciare dalla eccellente Vitellia, una Carmela
Remigio in ottima forma sotto tutti i punti di
vista: la sua voce disegna una linea di canto sicura in tutta la gamma, si
esprime con potenza riempiendo di colori la sala del teatro veneziano. Il suo
ruolo è addirittura civettuolo all’inizio, a tal punto da giocare a mosca cieca
con i suoi pretendenti, quasi ad indicare che chiunque possa aiutarla a
conquistare il desiato alloro la potrà avere. Con la giusta malizia, che cela
inganno e mero calcolo, riempie il palco con la sua sola presenza, grazie anche agli
splendidi costumi ed ad una regia che sottolinea in ogni
momento il fuoco che arde nel suo animo.
Meravigliosa
anche Monica Bacelli nei panni di Sesto. Il timbro leggermente
ambrato della voce le dona polposità e volumi notevoli; l’interprete è sentita,
calata nel ruolo; non è facile interpretare un personaggio maschile, eppure ne
cattura le sensazioni, gli stati d’animo dell’innamorato semplicemente usato,
con la forza che imprime alla parola, con la sottolineatura degli accenti, la
modulazione della voce sempre al servizio della frase, il tutto per comporre una
performance felicissima.
Il basso Luca Dall’Amico ha mostrato carattere e maturità nell’interpretare
Publio: con la sua voce che diviene sempre più bruna, cavernosa, decisamente
adatta a ruoli di temperamento, ha messo in luce il carattere del suo
personaggio con capacità e buon gusto.
Partito un po’ in sottotono rispetto ai
suoi compagni di palco, Carlo Allemano
ha dato miglior prova di personalità nel secondo atto, dandosi maggiormente al personaggio
interpretato, sia vocalmente che caratterialmente. Resta comunque il fatto che nel ruolo del titolo ci si aspettava qualcosa in più dal tenore.
Centrato
invece il ruolo del buon Annio, innamorato e a ben donde della cara Servilia. Raffaella Milanesi ha un colore di
voce pastoso e dal timbro interessante, ha tenuto il palco con la scioltezza
delle sue colleghe ed ha offerto una buona interpretazione vocale.
Discreta
la Servilia di Julie Mathevet. La sua
voce può ancora crescere ed arricchire quanto già doti attoriali e tenuta del
palco sono al momento i suoi punti di forza.
Gli
interventi del coro sono stati preparati come sempre all’altezza dello
spettacolo da Claudio Marino Moretti.
Alla
testa dell’orchestra della Fenice il Maestro Ottavio Dantone ha dato
prova di come si può dirigere Mozart senza essere mai banali, senza appesantire
i suoni, senza cedere ad una eccessiva leggerezza, insomma creando il perfetto
equilibrio tra musica e libretto, tra buca e palco, con la magia che solo la
grande esperienza può donare.
Il
pubblico che si è affrettato a raggiungere le uscite causa l’imminente rischio
acqua alta, si è comunque concesso il tempo di omaggiare e ringraziare
sentitamente i protagonisti col calore che è il più gradito premio dopo uno spettacolo
ben riuscito.
MTG
LA PRODUZIONE
Maestro concertatore
Ottavio Dantone
e direttore
Regia Ursel Herrmann
Karl-Ernst Herrmann
Regia Ursel Herrmann
Karl-Ernst Herrmann
scene, costumi e luci Karl-Ernst Herrmann
maestro
del Coro Claudio Marino Moretti
maestro
al cembalo Roberta Ferrari
GLI INTERPRETI
Tito Carlo
Allemano
Servilia Julie Mathevet
Vitellia Carmela Remigio
Annio Raffaella Milanesi
Sesto Monica Bacelli
Publio Luca Dall’Amico
Orchestra e Coro del Teatro La Fenice
Servilia Julie Mathevet
Vitellia Carmela Remigio
Annio Raffaella Milanesi
Sesto Monica Bacelli
Publio Luca Dall’Amico
Orchestra e Coro del Teatro La Fenice
con sopratitoli in italiano e in inglese