sabato 28 giugno 2014

THE RAKE’S PROGRESS, I. STRAVINSKY – GRAN TEATRO LA FENICE DI VENEZIA, venerdì 27 giugno 2014

Con grande attesa ritorna alla sua casa natale, nel teatro che l’ha vista nascere, l’opera che Stravinsky fece debuttare proprio al Teatro La Fenice di Venezia l’11 settembre 1851 dirigendola egli stesso: The rake’s progress. Una favola drammatica che sviscera il profondo dell’animo umano e che si sviluppa sul postulato che laddove esistano menti ‘oziose’ il Diavolo ha terreno fertile per i suoi piani loschi. La storia che il genio russo trasse dalle otto stampe di Hogarth, realizzate nel 1732 per prendere in giro la società libertina del settecento, è incentrata sulle vicende del pigro e lezioso Tom che spera di raggiungere ricchezza e gloria senza effettuare il minimo sforzo. Chiaro che in tal cuore leggero lo scaltro e tentatore Shadow trovi gioco facile. La lettura che il regista Damiano Michieletto fa di queste vicende è molto introspettiva, e sottolinea il contrasto tra l’iniziale pace e serenità di una normale famiglia che nel giardino della propria casa è intenta a pianificare il futuro della giovane Anne insieme al suo caro fidanzato Tom, e l’inferno che sovrasterà quelle stesse vite di lì a poco e che addirittura offuscherà la mente del ragazzo senza scampo.

Una produzione in collaborazione con l’Opera di Lipsia che vede impegnata la squadra Michieletto/Fantin/Teti per regia, scene e costumi e che ha stupito non poco il pubblico veneziano. Molti sono infatti gli elementi che differenziano la messa in scena da ciò che ci si aspetterebbe leggendo il libretto, ma che a nostro avviso si inseriscono nella visione generale dell’opera senza tradirne il contenuto. Innanzitutto già il sipario è sostituito da festoni argentati che riflettono le luci verso il pubblico quasi abbagliandolo. Forse un avvertimento a non cedere alle lusinghe dei luccichii perché potrebbe costare caro.

Inoltre non ci troviamo in pieno settecento, ma ai giorni nostri e nel giardino della famiglia Truelove è parcheggiata un’ auto di qualche decennio fa. Dopo il fugace idillio iniziale Tom accetta il patto col misterioso signor Shadow e l’atmosfera cambia radicalmente, divenendo sempre più cupa anche grazie agli effetti di luce che col rosso sangue  avvertono sul proseguimento degli eventi. Il palco che dovrebbe ospitare un bordello viene completamente occupato da una enorme piscina che come una ‘melting pot’ popolata da varie amenità si riempie di individui intenti a consumare  espliciti  atti sessuali in un’orgia senza fine, ove l’acqua è rappresentata da coriandoli dorati e gli amplessi vengono esplicitati in gruppo tra salvagenti dalle forme più disparate, con delle enormi insegne al neon incombenti dall’ alto e che indicano in latino i sette peccati capitali di cui il giovane si sta rendendo vittima (ed ogni animo debole rischia di cedervi). Il giovane Tom è coinvolto in questa specie di festa e cede alla signora Goose, che qui non è una donna matura ma una giovane bella e provocante di oro vestita, non prima di aver indossato una parrucca da pagliaccio, come a dire di essere un pupazzo totalmente in balia del suo tentatore. 
La barbuta Baba che il perduto giovane si lascia convincere a sposare è anch’essa  una provocante e bella donna, barbuta sì, ma bardata in un minuscolo abitino in pelle nera che ne lascia intravvedere le grazie ed armata di immancabile scudisco con cui detta legge a chi gli si pari davanti.  Il contenitore di peccati si trasforma successivamente in una vasca di fango (lo immaginiamo dai costumi imbrattati), ove si consuma il duello a carte del povero Tom con il demonio/Shadow. Le insegne penzolano ormai logore come a simboleggiare un decadimento generale nella disperazione. Viene introdotto addirittura un tentativo, da parte del ragazzo,  di assassinare il suo rivale con un colpo di pistola, ovviamente inutile, perché da esso il tentatore si rialza tranquillamente se pur preso da spasmi continui. Risulta molto forte la scena del manicomio ove grazie a Shadow finisce il ‘discepolo’ privato del senno, in cui il coro è straordinariamente coinvolto restando per quasi tutto l’atto immobile con un foglio di carta recante la scritta ‘Help me’ e solo accennando tremolii e gesti di disperazione, con le vesti logore e cosparse di fango. 
Il povero Tom si aggira per il palco con una bambola che egli coccola come fosse il suo amore Venere, credendosi egli stesso il mitico Adone. Alla fine non vede altra soluzione che anticipare la sua dipartita asfissiandosi con una busta di plastica in testa. In tutto questo la sua fidanzata Anne è spettatrice desolata del disfacimento del suo amore; per giunta in questo spettacolo deve anche vedersela con i continui ‘assalti’ fisici di Shadow deciso a prendersi tutta la torta e non soltanto la fetta rappresentata dall’anima del libertino.    
Chiaramente con una messa in scena così particolare il cast è stato chiamato ad offrire una recitazione molto forte oltre che al massimo impegno canoro.
Alex Esposito è il terribile Nick Shadow. La persistente risata ed il modo di cantare secco e diremmo tracotante lo rendono molto credibile nel ruolo. Offre anche una voce molto dura che ben si addice al personaggio.
La sua povera vittima Tom Rakewell è  Juan Francisco Gatell. Ci è parso che prendesse più coraggio subito dopo le prime battute ed il suo canto è divenuto subito più sicuro, forte anche di un bell’impasto vocale acuto e dolce.
Bella performance di Carmela Remigio come Anne. Il suo strumento ha un bel corpo e timbrica vellutata che si muove a suo agio nell’intervallo richiesto dalla partitura. Sentita e melodiosa la famosa berceuse nell’ultimo atto, ove ancora c’è spazio per sognare battelli che veleggiano ed ‘orti verdeggianti’, uno dei momenti ritenuti più alti della poetica di Auden in quest’opera.
La turca Baba è una prorompente Natasha Petrinsky, forse non proprio a suo agio nello strettissimo costume, ma interprete espressiva e carismatica.
Spigliata la Mother Goose di Silvia Regazzo e di buona presenza scenica anche il signor Truelove, alias Michael Leibundgut. Completano il cast il Sellem di Marcello Nardis ed un buon Matteo Ferrara come guardiano del manicomio.
Un plauso al Coro della Fenice che si è mirabilmente reso protagonista e parte integrante della messa in scena con abilità sia interpretative che canore senza perdere mai la concentrazione.
Diego Matheuz è alla guida dell’orchestra della Fenice. Pur possedendo talento e musicalità, il giovane Maestro in questo caso specifico non ci ha regalato le sfumature e gli approfondimenti che ci aspettavamo da una partitura certamente ostica, che strizza l’occhio al settecento, ma che ha in sé tutta la novità e freschezza del novecento, ricca anche di sferzate in grado di emozionare e colpire nel profondo.
Il pubblico numeroso ha applaudito con generosità tutti gli interpreti, in modo particolare Alex Esposito. All’inizio dell’unico intervallo si è udita qualche contestazione per la regia.
MTG


LA PRODUZIONE
Maestro concertatore
 e direttore                   Diego Matheuz
Regia                           Damiano Michieletto 
Scene                           Paolo Fantin
Costumi                       Carla Teti
Light designer             Alessandro Carletti


GLI INTERPRETI

Trulove                      Michael Leibundgut
Anne                         
Carmela Remigio
Tom Rakewell           Juan Francisco Gatell
Nick Shadow             Alex Esposito
Mutter Goose            Silvia Regazzo
Baba                          Natasha Petrinsky
Sellem                        Marcello Nardis
Il guardiano del manicomio           Matteo Ferrara


Orchestra e Coro del Teatro La Fenice
maestro del Coro Claudio Marino Moretti

in lingua originale con sopratitoli in italiano e in inglese

nuovo allestimento Fondazione Teatro La Fenice
in coproduzione con Oper Leipzig
nell’ambito del festival "Lo spirito della musica di Venezia"




Foto MICHELE CROSERA PER IL TEATRO LA FENICE