Con grande attesa ritorna alla sua casa natale, nel teatro che l’ha
vista nascere, l’opera che Stravinsky fece debuttare proprio al Teatro La Fenice
di Venezia l’11 settembre 1851 dirigendola egli stesso: The rake’s progress. Una
favola drammatica che sviscera il profondo dell’animo umano e che si sviluppa sul
postulato che laddove esistano menti ‘oziose’ il Diavolo ha terreno fertile per
i suoi piani loschi. La storia che il genio russo trasse dalle otto stampe di
Hogarth, realizzate nel 1732 per prendere in giro la società libertina del
settecento, è incentrata sulle vicende del pigro e lezioso Tom che spera di
raggiungere ricchezza e gloria senza effettuare il minimo sforzo. Chiaro che in
tal cuore leggero lo scaltro e tentatore Shadow trovi gioco facile. La lettura
che il regista Damiano Michieletto
fa di queste vicende è molto introspettiva, e sottolinea il contrasto tra l’iniziale
pace e serenità di una normale famiglia che nel giardino della propria casa è intenta a pianificare il futuro della giovane Anne insieme al suo caro fidanzato Tom, e l’inferno che sovrasterà
quelle stesse vite di lì a poco e che addirittura offuscherà la mente del
ragazzo senza scampo.
Una produzione in collaborazione con l’Opera
di Lipsia che vede impegnata la squadra Michieletto/Fantin/Teti per regia, scene
e costumi e che ha stupito non poco il pubblico veneziano. Molti sono infatti
gli elementi che differenziano la messa in scena da ciò che ci si aspetterebbe
leggendo il libretto, ma che a nostro avviso si inseriscono nella visione
generale dell’opera senza tradirne il contenuto. Innanzitutto già il sipario è
sostituito da festoni argentati che riflettono le luci verso il pubblico quasi
abbagliandolo. Forse un avvertimento a non cedere alle lusinghe dei luccichii perché
potrebbe costare caro.
Inoltre non ci troviamo in pieno settecento, ma ai
giorni nostri e nel giardino della famiglia Truelove è parcheggiata un’ auto di
qualche decennio fa. Dopo il fugace idillio iniziale Tom accetta il patto col
misterioso signor Shadow e l’atmosfera cambia radicalmente, divenendo sempre
più cupa anche grazie agli effetti di luce che col rosso sangue avvertono sul proseguimento degli eventi. Il
palco che dovrebbe ospitare un bordello viene completamente occupato da una
enorme piscina che come una ‘melting pot’ popolata da varie amenità si riempie
di individui intenti a consumare espliciti atti sessuali in un’orgia senza fine, ove l’acqua
è rappresentata da coriandoli dorati e gli amplessi vengono esplicitati in
gruppo tra salvagenti dalle forme più disparate, con delle enormi insegne al
neon incombenti dall’ alto e che indicano in latino i sette peccati capitali di
cui il giovane si sta rendendo vittima (ed ogni animo debole rischia di cedervi).
Il giovane Tom è coinvolto in questa specie di festa e cede alla signora Goose,
che qui non è una donna matura ma una giovane bella e provocante di oro vestita,
non prima di aver indossato una parrucca da pagliaccio, come a dire di essere un
pupazzo totalmente in balia del suo tentatore.
La barbuta Baba che il perduto
giovane si lascia convincere a sposare è anch’essa una provocante e bella donna, barbuta sì, ma
bardata in un minuscolo abitino in pelle nera che ne lascia intravvedere le
grazie ed armata di immancabile scudisco con cui detta legge a chi gli si pari
davanti. Il contenitore di peccati
si trasforma successivamente in una vasca di fango (lo immaginiamo dai costumi
imbrattati), ove si consuma il duello a carte del povero Tom con il demonio/Shadow. Le insegne penzolano
ormai logore come a simboleggiare un decadimento generale nella disperazione. Viene introdotto addirittura un tentativo, da parte del ragazzo, di assassinare il suo rivale con un colpo di
pistola, ovviamente inutile, perché da esso il tentatore si rialza
tranquillamente se pur preso da spasmi continui. Risulta molto forte la scena del
manicomio ove grazie a Shadow finisce il ‘discepolo’ privato del senno, in cui il coro è
straordinariamente coinvolto restando per quasi tutto l’atto immobile con un
foglio di carta recante la scritta ‘Help me’ e solo accennando tremolii e gesti
di disperazione, con le vesti logore e cosparse di fango.
Il povero Tom si
aggira per il palco con una bambola che egli coccola come fosse il suo amore
Venere, credendosi egli stesso il mitico Adone. Alla fine non vede altra
soluzione che anticipare la sua dipartita asfissiandosi con una busta di plastica
in testa. In tutto questo la sua fidanzata Anne è spettatrice desolata del
disfacimento del suo amore; per giunta in questo spettacolo deve anche
vedersela con i continui ‘assalti’ fisici di Shadow deciso a prendersi tutta la
torta e non soltanto la fetta rappresentata dall’anima del libertino.
Chiaramente
con una messa in scena così particolare il cast è stato chiamato ad offrire una
recitazione molto forte oltre che al massimo impegno canoro.
Alex Esposito è
il terribile Nick Shadow. La persistente risata ed il modo di cantare secco e diremmo
tracotante lo rendono molto credibile nel ruolo. Offre anche una voce molto
dura che ben si addice al personaggio.
La sua povera vittima Tom Rakewell è Juan Francisco Gatell. Ci è parso
che prendesse più coraggio subito dopo le prime battute ed il suo canto è divenuto subito più sicuro, forte anche di un bell’impasto vocale acuto e
dolce.
Bella performance di Carmela
Remigio come Anne. Il suo strumento ha un bel corpo e timbrica
vellutata che si muove a suo agio nell’intervallo richiesto dalla partitura. Sentita
e melodiosa la famosa berceuse nell’ultimo
atto, ove ancora c’è spazio per sognare battelli che veleggiano ed ‘orti
verdeggianti’, uno dei momenti ritenuti più alti della poetica di Auden in
quest’opera.
La turca Baba è una prorompente Natasha
Petrinsky, forse non proprio a suo agio nello strettissimo costume, ma
interprete espressiva e carismatica.
Spigliata la Mother Goose di Silvia
Regazzo e di buona presenza scenica anche il signor Truelove, alias Michael
Leibundgut. Completano il cast il Sellem di Marcello Nardis ed un
buon Matteo
Ferrara come guardiano del manicomio.
Un plauso al Coro della Fenice che si è
mirabilmente reso protagonista e parte integrante della messa in scena con
abilità sia interpretative che canore senza perdere mai la concentrazione.
Diego Matheuz è
alla guida dell’orchestra della Fenice. Pur possedendo talento e musicalità, il
giovane Maestro in questo caso specifico non ci ha regalato le sfumature e gli
approfondimenti che ci aspettavamo da una partitura certamente ostica, che
strizza l’occhio al settecento, ma che ha in sé tutta la novità e freschezza
del novecento, ricca anche di sferzate in grado di emozionare e colpire nel
profondo.
Il pubblico numeroso ha applaudito con
generosità tutti gli interpreti, in modo particolare Alex Esposito. All’inizio
dell’unico intervallo si è udita qualche contestazione per la regia.
MTG
LA PRODUZIONE
Maestro
concertatore
e direttore Diego Matheuz
Regia Damiano Michieletto
Regia Damiano Michieletto
Scene Paolo Fantin
Costumi Carla Teti
Light designer Alessandro Carletti
Costumi Carla Teti
Light designer Alessandro Carletti
GLI INTERPRETI
Trulove Michael
Leibundgut
Anne Carmela Remigio
Tom Rakewell Juan Francisco Gatell
Nick Shadow Alex Esposito
Mutter Goose Silvia Regazzo
Baba Natasha Petrinsky
Sellem Marcello Nardis
Anne Carmela Remigio
Tom Rakewell Juan Francisco Gatell
Nick Shadow Alex Esposito
Mutter Goose Silvia Regazzo
Baba Natasha Petrinsky
Sellem Marcello Nardis
Il guardiano del manicomio Matteo
Ferrara
Orchestra e Coro del Teatro La Fenice
maestro del Coro Claudio Marino Moretti
in lingua originale con sopratitoli in italiano e in inglese
nuovo allestimento Fondazione Teatro La Fenice
in coproduzione con Oper Leipzig
nell’ambito del festival "Lo spirito della musica di Venezia"
Foto MICHELE CROSERA PER IL TEATRO LA FENICE