“Oh questa figlia mia è una donna dura, è una donna dura...”
Starenka
Leos Janàceck,
compositore Moravo praticamente sconosciuto in Italia, se si eccettua qualche
sporadica produzione dei suoi principali lavori in alcuni teatri della
Penisola, gode di fama immensa all'estero dove risulta stabilmente in
repertorio sia nella programmazione operistica che sinfonica.
Jenufa
rappresenta il suo principale lavoro di esordio per il teatro non influenzato
da altri compositori o scuole musicali. E in effetti la personalità del
compositore si rivela pienamente nella potente sintesi di realismo tragico e
modi espressionistici che caratterizza l'opera, dove il dramma della sedotta
protagonista, il tremendo delitto della matrigna (Kostelnicka), la sua pubblica
confessione e il tenero amore di Laca che alla fine illumina Jenufa,
s'innestano in una coralità di un ambiente fortemente segnato e di grande
suggestione poetica. La costruzione armonica di Janàceck si esprime qui in una
politonalità originalissima che si sviluppa in piccole melodie riferite ai
personaggi e alle situazioni variate in continuazione con una scrittura
arditissima e difficilissima per l'esecutore (quasi sempre scale enarmoniche),
creando alla fine una sorta di instabilità che lega incredibilmente tutta
l'opera.
Mettere in scena
Jenufa (bene) quindi non è impresa facile ma all'opera di Graz è stato fatto
uno splendido lavoro soprattutto per quel che riguarda la parte registica.
Peter
Konwitschny, con la collaborazione per la realizzazione delle scarne
scene (un tavolo, 4 sedie, un letto) e dei costumi anni '50 del '900 di Johannes
Leiacker ci guida in un ambiente volutamente vuoto e libero da
qualsiasi rimando Moravio. I personaggi e la storia stessa si sviluppano
durante tre stagioni: il primo atto in estate su di un prato verde, il secondo
in inverno su di un terreno innevato. il terzo in primavera su di un prato
fiorito. Konwitschny e le drammaturghe Bernd
Krispin e Vladimir Zvara, vedono il dramma quindi come un processo di
maturazione e di scoperta, sorprendendoci continuamente con piccoli e
impercettibili colpi di scena non previsti nel libretto, come ad esempio nel
primo atto il coltello che di nascosto
la vecchia Burjya allunga a Laca per
sfregiare Jenufa, oppure il ruolo stesso della vecchia Buryja, pensato non più
come una vecchia sì saggia ma rimbambita, bensì come motore e carburante stesso
di tutta la macchina drammatica, facendola ballare, fischiare, picchiare. Oppure
nel secondo atto, mettendo in scena fisicamente l'assolo di violino che, come
unica presenza ristoratrice, affianca Jenufa nel momento della scoperta
dell'assenza del proprio figlio, oppure lo studio sul personaggio di
Kostelnicka non più mostro ma vittima del proprio amore per la chiesa (lei
sagrestana...) e per la società, che si riconosce specularmente nel destino
della sua figliastra, lei sterile donna.
Tre donne
quindi. Tre donne che vivono assieme in una casa senza anima, tre donne con uno
strano rapporto con la maternità.
Per Konwitschny, Kostelnicka non è la solita
signora di mezza età tendente all'anziano che di solito siamo abituati a vedere
in Jenufa. Non è la solita matrigna che potrebbe, anche anagraficamente, essere
la madre naturale di Jenufa. No, per Konwitschny la Kostelnicka è di poco più
anziana della figliastra. Non più di una decina d'anni. Questa poca differenza
d'età mette in moto, nella visione di Konwitschny, un dualismo fortissimo tra
matrigna e figliastra, una rivalità non detta, una specularità sinistra e
agghiacciante che colora ogni parola, ogni gesto della matrigna di inquietanti
retropensieri.
Questa
Kostelnicka, seppure di pochi anni più vecchia della figliastra, ha conquistato
una maturità a suon di sberle e di rifiuti da parte del marito (nella totale
assenza della suocera tutta presa nel ruolo di vedova del riccone) e si trova a
fare i conti con un futuro già scritto di rinunce e solitudine. Konwitschny cura con maniacale precisione
ogni singolo movimento dei personaggi sulla scena, siano essi principali o
secondari, coristi o comparse, rendendoci un lavoro che ricorderemo per molto
tempo.
Nel ruolo
eponimo troviamo una concentratissima Gal James. La cantante israeliana debutta il ruolo con una naturalezza e
una convinzione encomiabile, aiutata da una bellezza fisica non indifferente e
da una vocalità fresca e leggera che le permettono di risolvere la parte
micidiale di Jenufa connotando un personaggio fragile ma che sa il fatto suo,
evitando qui quegli inutili isterismi nella voce, tipici di chi affronta questo
ruolo con uno studio superficiale.
Il ruolo della
Sagrestana (Kostelnicka) vedeva un altro debutto in Iris Vermillion, la quale
non si risparmia sulla scena interpretando una donna che, seppur ancora giovane,
è già nell'età dei rimpianti. E' amareggiata, sconfitta e schiacciata dal
confronto con la figliastra che comunque ama e vorrebbe proteggere. In lei
parte la rivalità, senza dubbio, ma parte anche quella complicità tipicamente
femminile che s'instaura quando una donna diventa l'evoluzione dell'altra.
Vocalmente il ruolo le sta un poco stretto e se la parte bassa del rigo risulta
scura, meravigliosamente brunita e
calda, ha grosse difficoltà a sostenere una parte scritta per un soprano
drammatico, lei vocalmente un mezzosoprano, dove le note sopra il rigo
risultano quindi calanti o addirittura non raggiunte.
La terza donna
del clan, la vecchia Buryja, era Dunja Veizovic, indimenticata gloria
vocale del recente passato (ricordiamo che fu LA Kundry e LA Senta di Karajan)
ha saputo, nonostante le lacune vocali dovute all'età, interpretare
splendidamente e senza risparmio alcuno sulla scena (nel primo e terzo atto
sempre in scena).
Per Konwitschny
è tutt'altro che una piacevole nonnina. E' una signora anziana e una presenza
inquietante. Una sorta di larva sinistra, chiusa in un bozzolo d'egoismo. A
differenza del'empatia delle nonne questa signora anziana non prova niente per
nessuno. Solo Steva e Jenufa -perchè sono belli e simpatici- gli ispirano
narcisistici moti di simpatia. Tutti gli altri membri della famiglia sono solo
persone inutili. Quando Jenufa verrà sfregiata da Laca nella bellissima pelle
del viso, la vecchia si ritrarrà con orrore da questa nipote sfregiata,
abbruttita, mortificata.
Ales
Briscein, unico componente madrelingua del cast, è stato un Laca
convincente sul piano musicale e vocale, fraseggia con maestria e precisione,
aiutato da un timbro veramente bello e da una presenza scenica eccellente.
Di contro il
fratellastro Steva ha avuto in Tayland Rehinhard un interprete un
po' troppo sopra le righe, dalla vocalità spesso non concentratissima e risolta
spesso con artifici tecnici non ortodossi.
Completavano il
nutrito cast uno splendido David Mcshane (Starek), Konstantin
Sfiris (il Sindaco), Stefanie Hierlmeier (la moglie del
Sindaco), Tatyana Miyus (Karolka), Fran Lubahn (la vaccara), Xiaoyi
Xu (Barena), Nazanin Ezazi (Jano), Hana
Batinic e Istvan Szecsi (due voci interne).
Tutto il cast e
l'ottimo coro (diretto da Bernhard Schneider) hanno trovato
supporto dalla direzione musicale di Dirk Kaftan il quale mostra chiare
affinità con la musica di Janàceck, Il suo gesto, esalta i mille colori e i
mille dettagli che il compositore ha inserito nella scrittura orchestrale assimilando
correttamente il ritmo e l'inflessione di questo tipo di musica, aiutato da
un'orchestra come la Grazer Philarmonisches veramente in stato di grazia.
Successo
vivissimo per tutti con numerose chiamate al proscenio per Konwitschny.
Pierluigi Guadagni
LA PRODUZIONE
Direttore d’orchestra
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Dirk Kaftan
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Regia
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Peter Konwitschny
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Scene
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Johannes Leiacker
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Luci
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Manfred Voss
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Drammatizzazione
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Bettina Bartz • Bernd Krispin
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GLI INTERPRETI
La vecchia Buryja
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Dunja Vejzović
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Laca Klemen
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Ales Briscein
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Stewa Buryja
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Taylan Reinhard
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Sagrestana Buryja
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Iris Vermillion
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Jenufa
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Gal James
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Starek
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David McShane
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Sindaco
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Konstantin Sfiris
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Sua moglie
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Stefanie Hierlmeier
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Karolka
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Tatjana Miyus
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Vaccara
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Fran Lubahn
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Barena
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Xiaoyi Xu
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Jano
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Nazanin Ezazi
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1. voce
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Hana Batinic
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2. voce
|
István Szecsi
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Violino Solo
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Yukiko Imazato-Härtl • Fuyu Iwaki
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GRAZER
PHILARMONISCHES ORCHESTER
Foto Teatro dell'Opera di Graz